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I principali luoghi della storia di una comunità nata intorno ad un palazzo di campagna

Palazzo del Principe

Il Palazzo del Principe fatto costruire alla fine del XVIII secolo, rappresentava la residenza estiva dei signori di Scalea, la famiglia Spinelli che oltre ad essere famosa militarmente è conosciuta anche per le opere letterarie del Principe Francesco Maria Spinelli nato da Antonio e Beatrice Carafa. Il principe Antonio Spinelli, vissuto all’epoca dell’Inquisizione ampliò il feudo acquistando nel 1768 anche quello di Aieta .
Il palazzo fu costruito nella contrada Dino sulla probabile ex platea di una villa romana. Il principe Scordia Pietro Lanza Branciforte, appartenente ad un ramo, quello dei principi di Trabia dell’antica nobile famiglia siciliana dei Lanza di Palermo, ereditò tutto il feudo sposando il 29 giugno 1832 Eleonora Caracciolo Principessa di Scalea, Marchesa di Majorca ultima erede degli Spinelli.
Il palazzo si trova al margine settentrionale dell’altopiano che volge verso capo Scalea.. Si tratta di una struttura in stile barocco a pianta quadrata attualmente in restauro, che serviva da residenza al piano superiore, e da deposito di derrate alimentari al piano terra. Pur essendo adibito a tal uso, non mancano nell’imponente struttura ( lunghezza 30 metri, larghezza 36 metri) elementi architettonici di grande pregio, ovvero il portale d’ingresso, dominato da una superba serie di archi e il cortile, terminante con una scala adornata da simmetrici elementi.

La tipologia planimetrica del palazzo segue un impianto di tipo regolare e simmetrico, costituito da ambienti comunicanti attorno ad una corte interna. In essa è situato il corpo scala dall’andamento curvilineo, con due simmetriche rampe, posto frontalmente all’ingresso ed innanzi ad un avancorpo. Da esso si accede al piano superiore, adibito a zona residenziale, ove si notano tracce di caminetti per il riscaldamento degli ambienti e quattro nicchie, poste simmetricamente come uso di servizi igienici. In questo piano è inoltre situata una loggia con triplice arcata.
Lo stato di rovina in cui versava l’edificio ha reso tuttavia ugualmente possibile una sua lettura tipologica architettonica.
Il palazzo è stato costruito prevalentemente con pietre di roccia dello stesso terreno roccioso circostante dalla parte del mare, pietre che venivano poi modellate e poste in opera secondo la loro destinazione; come le mensole elemento portante dei balconi, le bocche di scarico dell’acqua piovana scolpite a forma di maschera, svuotate all’interno, l’una diversa dall’altra ma di uguale dimensione, poste a distanza regolare lungo il cornicione esterno e quello interno del cortile.
Nella muratura come elementi riempitivi si notano pezzi di cotto e di pietra tufacea.
Il cotto, in varie forme e tagli è posto soprattutto a definire gli architravi e gli stipiti dei balconi e dei passaggi interni, inoltre, si ritrova nella pavimentazione interna e del cortile, nella definizione rettilinea degli aggetti (sporgenze) dei basamenti e delle cornici, e come conci nelle aperture ad arco della facciata principale e di quelle del corpo scala del cortile.
La pietra tufacea, si trova nei basamenti delle quattro soluzioni angolari esterne ed in quelli delle lesene della facciata del corpo scala, ed inoltre sulle pedate della scala, nella soglia della loggia esterna e nelle soglie architravi e stipiti delle finestre. Attualmente il palazzo è ancora in fase di restauro, pur essendo passati molti anni dall’ inizio dei lavori avvenuti nel 1991. Oggi è funzionante l’ impianto idraulico, elettrico e il sistema d’allarme; sono da ultimare gli infissi, la pavimentazione e la riqualificazione dello spazio antistante l’edificio.




PLANIMETRIA DEL PALAZZO DEL PRINCIPE


Chiesa San Nicola da Tolentino



La chiesa, ubicata nel centro storico, è una costruzione eclettica ( ha uno stile architettonico che si rifà a diverse correnti) di maestranze locali che sorse nel XVII secolo come Cappella della Visitazione della Beata , sul lato sud della Chiesa e corrispondente all’ attuale Madonna delle Grazie.

Da essa nel XIX secolo prenderà nome la parrocchia dipendente dall’ arcipretura di San Nicola in Plateis.

Nella seconda metà del XIX secolo, su progetto dell’ architetto Ruffo Enrico di Cerreto e per volontà ed intervento di Laura Siciliano (moglie di Alessandro), la chiesa subisce l’ ampliamento dettato anche da necessità demografiche che le donerà l’aspetto attuale.
L’impianto a schema basilicale con due navate laterali separate da una serie di pilastroni ed arcate con strutture a getto, risulta completato da una volta a tutto sesto.

La chiesa ha annesse due torri campanarie, simmetriche, ai lati della facciata principale, in cui si apre il portale rettangolare fiancheggiato da lesene ioniche decorative (pilastri ornamentali) .
L’ingresso è sormontato da una nicchia che ospita la statua marmorea di
San Nicola da Tolentino.
L’ interno, completamente decorato a stucchi policromi, è
composto da una navata centrale e sei cappelle laterali, simmetriche, decorate da: Laino Serafino, Alfonso Tundisi, Laura Mello Coelho, Giuseppe Tucciarelli, Annunziata Grisolia e Francesco Mario.

interno della chiesa
In esso, inoltre, si possono ammirare, oltre alla statua di San Nicola da Tolentino, decorazioni a stucco e statue processionali (la venerazione dei fedeli fu rivolta anche per Sant’ Anna, Santa Lucia, San Biagio, San Francesco di Paola , Santa Filomena, San Giuseppe e San Vincenzo).

Gli affreschi realizzati da Giuseppe Faita nel 1970 raffigurano Santa Teresa, San Nicola da Tolentino e la scena della Visitazione; più innanzi la corona dei dodici apostoli con all’ apice la figura del Cristo; in alto, angeli festosi adornano la statua di San Nicola da Tolentino posta dietro l’ imponente altare realizzato da Mansueto Candia.
Alle prime campane vennero sostituite nell’anno giubilare del 1950, quelle donate nello stesso anno, insieme all’orologio, da Amedeo Barletta (sulle campane appaiono le epigrafi :”Anno Santo 1950 Comm .A. Barletta dà l’ orologio- il popolo grato ringrazia”, “il Comm. Barletta la fa rifondere”).

La chiesa dunque venne ampliata per interessamento di Laura Siciliano: sulla sinistra del ponte d’ ingresso in una lapide si legge Donna Laura Siciliano nata con nobile slancio di fede e carità alla maestà e gloria dell’ altissimo.
Anche i popolani, dunque, nelle loro esigue disponibilità economiche, contribuirono alla realizzazione della piccola Basilica di San Nicola Arcella. Furono le famiglie benestanti a contribuire in termini economici, anche se non è da disconoscere il volume di piccoli contributi offerti un po’ da tutti i sannicolesi, che contribuirono con la forza e il sudore all’ ampliamento della Casa del Signore.
Tutti, dopo aver sostenuto una pesante giornata di lavoro, trasportavano sul capo e in spalla i massi prelevati lungo le anse del Canal Grande o in località Tufo.

Originariamente la chiesa presentava elementi di adornamento e temi architettonici di assoluta bellezza: il presbiterio risultava diviso dal resto della chiesa da una balaustra al cui centro era presente un piccolo cancello di ferro battuto; le sei cappelle risultavano anche esse chiuse mediante cancelli; tre grandi lampadari illuminavano l’ intera struttura donandole un tocco di superba solennità .













Biografia di San Nicola da Tolentino

Nacque a Sant’Angelo in Pontano, in provincia di Macerata , nel 1245,da Compagnono de Guarutti e Amata de Guidiani, gente pia,forse di famiglia nobile.
La leggenda della sua vita rappresentata da un pittore grottesco detto Maestro della Cappella di San Nicola, narra che i suoi genitori, su consiglio di un angelo, si fossero recati a Bari, in pellegrinaggio alla tomba di San Nicola di Mira o di Bari , per avere la grazia di un figlio.
Ritornati a Sant’Angelo ebbero il figlio adorato.
Nicola,divenuto ormai giovane, entrò nell’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino e venne fatto canonico della chiesa di San Salvatore. Ascoltando una predica di un eremita agostiniano sulla frase latina “Nolite dirigere mundum ,nec ea quae sunt in mundo,quiamundus transit et cuncupiscenzia ejus”(non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo, perché il mondo passa e passa la sua concupiscenza),avvertì la chiamata alla vita religiosa.
Implorò l’eremita di ammetterlo nel proprio ordine, e i suoi genitori acconsentirono con gioia. Prima della sua ordinazione venne mandato in diversi monasteri e fu un modello di generoso impegno verso la perfezione.
Molteplici sono gli episodi della vita di San Nicola che sono stati tramandati con devozione a testimonianza della sua fede:

-Nel tragitto da Sant’Angelo a Tolentino, imponendo le mani, impedì il crollo di una parte della cinta muraria.
-Il “ponte del diavolo di Tolentino” così chiamato, in ricordo della leggenda, secondo cui il diavolo stipulò un patto con San Nicola, dicendogli che avrebbe costruito un ponte in una sola notte in cambio dell’anima del primo essere vivente che lo avesse attraversato. Il santo accettò, e a costruzione ultimata benedisse il ponte.
Il primo a passare di lì fu un cane, a cui il santo gettò del cibo, costringendo l’animale ad attraversare il ponte. Il diavolo tentò invano di distruggere a forza di cornate il ponte, ormai benedetto.
-Durante la sua permanenza nel monastero di San Ginesio, San Nicola era solito portare del cibo ai mendicanti in segreto dai suoi superiori. Venuto a sapere dell’espediente, i frati lo bloccarono chiedendogli cosa portasse. Il santo rispose “petali di rose!” scrollando le maniche dalle quali uscirono petali di fiori.
-Durante il cammino, San Nicola era solito fermarsi a pregare in una zona di campagna nelle vicinanze di Sant’Angelo. In quel punto fece sgorgare un piccolo pozzo, dal quale abbeverarsi. Le fontanelle di San Nicola, smettono di sgorgare, se un animale si abbevera da esse, fino a quando non vengono nuovamente benedette dal sacerdote.

For the blood is life: un racconto ambientato a San Nicola Arcella


Francio Marion Crawford ,scrittore americano famoso soprattutto per i suoi romanzi storici e del terrore , soggiornò a lungo a San Nicola e dimorò presso l’antica torre cinquecentesca. Proprio a San Nicola è ambientato questo racconto del terrore il cui titolo originale è For the blood is life. Nella storia si riconoscono luoghi e personaggi sannicolesi, la protagonista è un affascinante vampiro di nome Cristina……





CRISTINA
di Francis Marion Crawford






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CRISTINA di Francis Marion Crawford




Al tramonto avevamo cenato sull’ampia terrazza dell’ antica torre,poiché lì faceva più fresco durante il gran caldo dell’ estate . Inoltre,una piccola cucina era stata ricavata su un angolo della grande piattaforma quadrata, e questo rappresentava una grande comodità, piuttosto che andare su e giù coi piatti lungo quei ripidi gradini di pietra scheggiati e consumati dovunque dal tempo.
La torre è una delle tante fatta costruire lungo le coste occidentali della Calabria dall’imperatore Carlo V all’inizio del sedicesimo secolo , per tener lontani i pirati barbareschi , quando gli infedeli si erano alleati a Francesco I contro l’ Imperatore e la Chiesa. La maggior parte è in rovina ,poche sono ancora integre, e la mia è una delle più grandi .Come sia diventata mia dieci anni fa , e per quale ragione io vi passi la maggior parte dell’anno , sono questioni che non riguardano questo racconto.
La torre si erge in uno dei luoghi più solitari dell’Italia meridionale ,all’estremità di un promontorio roccioso , là dove questo s’incurva
formando un piccolo ma sicuro porticciolo all’estrema punta sud del golfo di Policastro , appena a nord di Capo Scalea , il luogo
in cui-secondo antiche leggende locali – nacque Giuda Iscariota . La torre spunta isolata da quell’ uncino di roccia e nel raggio di tre miglia
non si scorge una sola casa.
Quando abito alla torre porto con me un paio di marinai , uno dei quali è discretamente in gamba , come cuoco;quando sono assente , lascio tutto in custodia a una piccola creatura simile a uno gnomo, che in gioventù era minatore e mi si è affezionato molto tempo fa. L’amico che a volte viene a trovarmi nella mia solitudine estiva è un ‘artista di professione , scandinavo di nascita ,costretto dalle circostanze al cosmopolitismo. Cenammo a tramonto;il bagliore del sole , di un rosso infuocato , andava attenuandosi , e il manto purpureo della sera avvolgeva l’ampia catena di montagne che abbracciava l’ampio golfo verso oriente impennandosi sempre più in alto in direzione sud. Faceva caldo, e noi eravamo sull’ angolo della terrazza che guardava verso terra, in attesa che la brezza notturna cominciasse a discendere su di noi dalle colline più basse. La tinta purpurea dell’ area si spense, e vi fu un breve intervallo crepuscolare di un grigio intenso. Una lampada proiettò una striscia gialla dalla porta della cucina, dentro la quale gli uomini stavano consumando il pasto serale.
Poi, quasi all’ improvviso, la luna spuntò dietro la cresta del promontorio, inondando la terrazza con il suo chiarore e traendo riflessi da ogni protuberanza rocciosa o filo d’erba sotto di noi, giù fino al bordo dell’ acqua immota. Il mio amico accese la pipa e restò seduto a guardare verso un punto sul fianco della collina. Sapevo che lo stava guardando, e mi stavo chiedendo, infatti, quando finalmente si sarebbe deciso a parlare. Io conoscevo bene quel punto , e mi risultò
subito chiaro che il mio amico s’interessava vivamente a esso. Passarono alcuni minuti , in completo silenzio . Come molti pittori, il mio amico si basava interamente sulla sua vista, come un leone confida nella sua forza e un cervo nella sua velocità, e si trovava sempre a disagio quando non riusciva a conciliare ciò che credeva di dover vedere con quello che,effettivamente,vedeva.
“È strano”, disse.”Vedi il piccolo tumulo sul lato di quel macigno?”
“Si”, confermai,sapendo già ciò che sarebbe seguito.
“Sembra una tomba”,continuò Holger.
“È vero . Ha l’aspetto di una tomba.”
“Si”, disse ancora il mio amico , sempre tenendo gli occhi fissi su quel punto. “Ma la cosa strana è che vedo il corpo che giace sopra di essa. Naturalmente” prosegui Holger , piegando la testa da un lato,
come fanno gli artisti , “ dev’essere un gioco di luci . Per prima cosa,non è affatto una tomba. Secondo , se anche lo fosse, il corpo dovrebbe essere dentro , e non fuori. Perciò, è soltanto un effetto della luce lunare. Lo vedi?”
“ Perfettamente. Lo vedo sempre quando c’è il chiaro di luna.”
“ Non mi sembra che t’interessi molto “, osservò Holger .
“ Al contrario, m’interessa,anche se ci sono abituato .E non ti sei affatto sbagliato:quel tumulo è davvero una tomba.”
“ Sciocchezze!” , gridò Holger , incredulo.” E mi dirai anche ,
immagino, che quello che io distinguo là sopra è veramente un cadavere!”
“No!”, risposi, “ non lo è. Lo so, perché mi son preso la briga di andar giù a vedere.”
“ Allora , che cos’è?” , domandò Holger.
“ Non è niente.”
“Vuoi dire che è un gioco di luci, allora?”
“Forse lo è. Ma il lato inesplicabile della faccenda è che non ha alcuna importanza che la luna sia crescente o calante, o scenda a perpendicolo dal cielo. Basta che illumini la tomba, e si vede sempre il profilo di un corpo sopra di essa.”
Holger attizzò la pipa con la punta del coltello, poi schiacciò il tabacco con le dita . Quando la brace attecchì, si alzò in piedi.
“Se non ti dispiace” disse, “ vado giù a darci un’ occhiata.”
Mi lasciò, attraversò la terrazza e scomparve giù nella scura e stretta scala.
Io non mi mossi,ma restai a guardare fino a quando non lo vidi comparire in basso, fuori della torre. Lo sentii fischiettare un’ antica canzone danese mentre risaliva il pendio allo scoperto, in direzione del tumulo misterioso. Quando fu a dieci passi da esso, Holger si arrestò bruscamente, poi avanzò di altri due passi, tornò indietro di altri tre o quattro, e nuovamente si fermò. Sapevo perfettamente il significato di quelle manovre. Aveva raggiunto il punto oltre il corpo cessava di esser visibile, dove, cioè, come lui stesso aveva detto, il gioco delle luci mutava.
Poi tornò ad avanzare fino a quando non ebbe raggiunto la tomba e vi fu montato sopra. Io vedevo ancora l’ essere, ma non era più disteso: era in ginocchio, adesso, è si era avvinghiato con le pallide braccia al corpo di Holger, fissandolo in viso. In quell’ attimo, una fresca brezza agitò i miei capelli, mentre il vento della notte cominciava a soffiare giù dalle colline; mi parve l’ alito di un altro mondo.
Sembrò che la creatura cercasse di alzarsi in piedi, aiutandosi col corpo di Holger .
Questi era ritto sopra il tumulo, del tutto inconsapevole di quella presenza, e apparentemente intento a contemplare la torre, che assai pittoresca quando la luce della luna l’ investe su quel lato.
“Vieni!”, gli gridai.”Non restare lì tutta la notte!”
Sembrò che si muovesse con riluttanza, mentre scivolava giù dal tumulo, o quanto meno con difficoltà. Le braccia della creatura lo stringevano alla vita, ma i piedi di quell’ essere non potevano lasciare la tomba.
Holger avanzò lentamente, e la creatura si allungò come una spirale di nebbia, pallida e sottile,fino a quando non vidi distintamente Holger colto da un fremito, come accade a uomo colpito da un brivido improvviso Nel medesimo istante,un fievole grido di dolore giunse alle mie orecchie sulle ali della brezza - avrebbe potuto essere il grido della piccola civetta che vive tra le rocce – e la presenza nebbiosa arretrò rapida,fluttuando, sciogliendosi dalla figura di Holger che si allontanava, e giacque ancora una volta, supina, sul tumulo.
Avvertii nuovamente la gelida brezza che mi scompigliava i capelli, e questa volta un brivido di terrore mi serpeggiò lungo la spina dorsale. Ricordai molto bene che una notte ero disceso laggiù da solo, alla luce della luna:trovandomi così vicino, non avevo visto nulla. Come Holger, ero salito sopra il tumulo, e ricordai come, avviandomi per ritornare, convinto che non vi fosse niente là sopra, all’ improvviso avevo provato la sensazione che , dopotutto, avrei visto qualcosa, se soltanto mi fossi voltato a guardare. Ricordai la forte tentazione che avevo provato, a
voltarmi, una tentazione alla quale avevo resistito , giudicandola indegna di un uomo di buon senso. Fino a quando, per sbarazzarmene, mi ero scrollato, propri come aveva fatto Holger.
Ora sapevo invece che quelle pallide braccia nebbiose si erano strette anche intorno a me; lo capii in un lampo, e rabbrividii rammentando che anch’io, allora, avevo udito il grido della civetta. Ma non era stato il grido della civetta. Era la creatura che aveva gridato.
Riempii nuovamente la pipa e mi versai un bicchiere di robusto vino del Sud, un minuto dopo, Holger era nuovamente seduto accanto a me.
“Naturalmente, non c’è niente laggiù”, commentò. “Ma è ugualmente qualcosa che ti dà i brividi. Sai…mentre tornavo,ero convinto che ci fosse qualcosa dietro di me, al punto che stavo per girarmi a guardare. Ho dovuto lottare per non farlo. “
Ridacchiò, vuotò il fornello della pipa e si versò un po’ di vino. Per parecchi minuti nessuno di noi due parlò; la luna salì ancora più in alto nel cielo, ed entrambi guardammo giù verso la forma che giaceva sul tumulo.
“Perché non ci scrivi sopra una storia? “ disse infine Holger
“ Ce n’è già una”, replicai. “ Se non hai sonno, posso raccontartela “
“ Si, dilla “, esclamò Holger al quale piacevano le storie.
***
Il vecchio Alario stava morendo, laggiù nel villaggio dietro la collina. Lo ricorderai non ne dubito. Dicono che si fosse arricchito vendendo gioielli falsi nel Sudafrica, fuggendo precipitosamente, con tutti i suoi guadagni quando scoprirono l’inganno.
Come tutti quelli come lui, quando non ritornano a mani vuote, si mise subito al lavoro per ingrandire la sua casa, e poiché qui non ci sono muratori, ne mandò a chiamare due da Paola. Questi muratori erano un paio di furfanti dall’aspetto rude, un napoletano orbo di un occhio e un siciliano con una vecchia cicatrice profonda mezzo pollice che gli correva lungo la guancia sinistra. Li vedevo spesso, poiché la domenica avevano l’abitudine di venire quaggiù a pescare tra le rocce. Quando Alario si beccò la febbre che lo uccise, i due muratori erano ancora al lavoro.
Poiché aveva pattuito che una parte della loro paga sarebbe stata costituita dal vitto e dall’alloggio, li aveva fatti dormire in casa. Sua mogli era morta, e Alario aveva un solo figlio che si chiamava Angelo ed era assai migliore di lui. Angelo avrebbe dovuto sposare la figlia dell’uomo più ricco del villaggio e, strano a dirsi,anche se il matrimonio era stato combinato dai genitori, i due giovani si amavano veramente.
In verità, tutto il villaggio voleva bene ad Angelo, e più di ogni altro una creatura selvaggia e di bell’aspetto, Cristina, assai più simile a una zingara che a una delle tranquille ragazze del paese. Aveva due labbra vermiglie, gli occhi neri , e un corpo slanciato come un levriero e la lingua di un diavolo. Ma ad Angelo non importava nulla di lei. Lui era un giovane semplice e schietto, assai diverso da quel furfante di suo padre, e in quelle che io chiamerei circostanze normali sono convinto che non avrebbe mai guardato nessun’altra ragazza oltre a quella graziosa e florida creatura , con una ricca dote, che suo padre gli aveva destinato in moglie. Ma accaddero cose che niente avevano di normale e di naturale.
Anche un pastore, assai giovane e bello, che abitava tra le colline sopra Maratea, era innamorato di Cristina, la quale però lo trattava con indifferenza. Cristina non aveva mezzi regolari per vivere, ma era una brava ragazza,disposta a qualunque lavoro, o a eseguire commissioni a qualunque distanza, pur di guadagnarsi un pezzo di pane o un piatto di fagioli, e il permesso di dormire al coperto. Era contenta, soprattutto quando le veniva dato qualcosa da fare a casa del padre di Angelo.
Il villaggio non aveva un dottore, e quando i vicini videro che il vecchio Alario stava morendo, mandarono Cristina a Scalea perché ne chiamasse uno. Questo accadde nel pomeriggio, sul tardi; avevano aspettato così a lungo perché il vecchio aveva rifiutato ostinatamente una simile stravaganza mentre era ancora in grado di parlare. Ma, mentre Cristina era ancora via, la situazione peggiorò rapidamente; al suo capezzale fu chiamato il prete, il quale, quando ebbe fatto quanto poteva, dichiarò a q1uelli che si trovavano accanto al letto che secondo lui il vecchio era morto, e lasciò la casa.
Tu conosci questa gente: hanno tutti un terrore fisico della morte. Fino a quando il prete non parlò, la stanza era gremita di gente. Le parole erano appena uscite dalla sua bocca e la stanza si era già vuotata. Era notte, ormai. Tutti si precipitarono giù per l’angusta scala nel buio, e uscirono in strada.
Angelo era via; Cristina non era ancora tornata, l’ incolta fantesca di Alario, che aveva curato, era fuggita insieme agli altri. Il corpo esamine fu lasciato solo, la luce ammiccante di una lucerna di terracotta.
Cinque minuti più tardi due uomini guardavano cautamente dentro la stanza e si avvicinarono furtivi al letto. Erano il muratore napoletano- il guercio- e il suo compare siciliano. Sapevano cosa cercare. In un attimo trascinarono fuori da sotto il letto un cofano rivestito di ferro, piccolo ma pesante, e molto prima che qualcuno pensasse di ritornare accanto al morto, aveva lasciato la casa e il villaggio, a riparo dalle tenebre.
Questo fu abbastanza facile, poiché la casa di Alario era l’ultima prima della gola che conduce quaggiù, e i ladri erano usciti dall’ingresso posteriore, scavalcando il muro di pietra. A questo punto, rischiavano soltanto di incontrare qualche contadino che rientrava tardi dal lavoro, ma il rischio era minimo, perché pochissima gente usava quel sentiero. Avevano una vanga e un piccone, e arrivarono fin qui senza incidenti.
Ti racconto questa storia così come penso si sia svolta, poiché,naturalmente, non ci furono testimoni per questi fatti. I due uomini trasportarono il cofano giù per la gola, dato che intendevano seppellirlo fino a quando non fossero potuti tornare per portarlo via con una barca. Avevano certamente capito che una parte del denaro era in banconote, altrimenti lo avrebbero seppellito nella battigia, dove sarebbe stato molto più al sicuro ma , contemporaneamente, la carte sarebbe marcita se avessero dovuto lasciarlo lì a lungo. Perciò scavarono il buco accanto a quel macigno. Si, proprio nel punto dove adesso si trova il tumulo.
Cristina non trovò il dottore a Scalea, poiché l’aveva mandato a chiamare da un altro villaggio, a metà strada da San Domenico. Se l’avesse trovato, il dottore sarebbe venuto col mulo lungo la strada alta, meno accidentata ma più lunga. Cristina, invece, prese la scorciatoia tra le rocce, che passa una ventina di metri sopra il tumulo e gira dietro quell’angolo, laggiù.
I due uomini stavano scavando, quando Cristina arrivò. Li sentì; non sarebbe stato da lei proseguire senza prima scoprire la causa di quel rumore, poiché nella sua vita non aveva mai avuto paura di niente e, inoltre, i pescatori a volte venivano a riva, qui, di notte, per ancorare le barche o per raccogliere dei rami con cui accendere un piccolo falò.
La notte era cupa, e probabilmente Cristina arrivò molto vicino ai due uomini prima di vedere quello che stavano facendo. Li conosceva, naturalmente, come loro conoscevano lei, e subito compresero che erano alla sua mercè.
C’era soltanto una cosa da fare per salvarsi, e la fecero. La colpirono alla testa, scavarono una buca ancora più profonda e si affrettarono a seppellirla insieme al cofano rivestito di ferro. Avevano senz’altro capito che l’unica possibilità di sfuggire ai sospetti era quella di ritornare al villaggio prima che la loro assenza fosse notata, per cui si affrettarono, e furono trovati mezz’ora più tardi intenti a confabulare con l’uomo che stava preparando la bara di Alario. Era un loro amico, e aveva lavorato anche lui alle riparazioni nella casa del vecchio. Da quanto sono riuscito a scoprire, le uniche persone che sapevano dove Alario teneva il tesoro erano Angelo e la vecchia servente di cui ho già parlato. Angelo era via. Fu la donna a scoprire il furto.
Era facile capire perché nessun altro sapeva dove si trovasse il tesoro. Il vecchio teneva chiusa la porta, si ficcava la chiave in tasca quand’era fuori, e permetteva alla donna di entrare per le pulizie soltanto in sua presenza. Tutto il villaggio, però, sapeva che Alario aveva dei soldi nascosti, e i muratori probabilmente avevano scoperto il cofano arrampicandosi attraverso la finestra durante la sua assenza.
Se il vecchio non fosse stato in preda al delirio fino all’istante in cui era caduto in coma, avrebbe provato una terribile angoscia al pensiero delle sue ricchezze. La fedele fantesca si era dimenticata dell’esistenza del tesoro soltanto per pochi attimi,quand’era fuggita insieme agli altri sopraffatta dal terrore della morte.
Non era passato un quarto d’ora,ed era già di ritorno con le due orrende vecchiacce che venivano sempre chiamate a preparare i morti per la sepoltura.
Perfino all’ora,per qualche minuto,non aveva avuto il coraggio di avvicinarsi al letto insieme a loro,ma fece finta di lasciar cadere qualcosa,s’inginocchio a raccoglierlo e guardò sotto il letto.Le pareti della stanza erano state appena ridipinte in bianco,e le bastò una sola occhiata per rendersi conto che il cofano era sparito.Poche ore prima,nel pomeriggio,c’era ancora;era stato rubato,perciò,nel breve intervallo in cui aveva lasciato la stanza.
Non vi è una stazione di carabinieri al villaggio e neppure un vigile urbano poiché non c’è un municipio.È difficile trovare un altro posto simile a questo.In qualche modo misterioso, toccherebbe a Scalea occuparsene.ma ci vogliono un paio di ore per far venire qualcuno da lì.
La vecchia aveva passato tutta la vita al villaggio, e non le passo neppure per la testa di rivolgersi a qualche autorità civile per chiedere aiuto.
Cominciò invece a strillare e corse per il villaggio,al buio urlando che la casa del suo defunto padrone era stata visitata dai ladri.Molte persone sporsero fuori la testa,ma sulle prime nessuno parve incline ad aiutarla. La maggior parte giudicandola con lo stesso metro che usavano per se stessi,bisbigliarono tra loro,dicendo che probabilmente era stata lei a rubare i soldi.
Il primo a muoversi fu,comunque,il padre della ragazza che Angelo avrebbe dovuto sposare; dopo aver radunato i suoi familiari, ognuno dei quali aveva un interesse personale nei confronti di quella ricchezza, che si sarebbe aggiunta alla propria, si dichiarò convinto che il cofano fosse stato trafugato dai due muratori che abitavano nella casa. Guidò i suoi alla loro ricerca, la quale naturalmente cominciò dalla casa di Alario e finì nella bottega del falegname, dove trovarono i due ladri che discutevano di una certa quantità di vino con l’artigiano che aveva quasi finito la bara, alla luce di una lanterna di terracotta piena di olio e sego.
Il gruppo accusò immediatamente i due delinquenti del loro crimine, e minacciarono di rinchiuderli in cantina fino a quando i Carabinieri non fossero giunti da Scalea. I due uomini si guardarono per un momento, poi, fulmineamente, fracassarono la lanterna e, afferrando d’ambo i lati la bara non ancora finita, l’usarono come un ariete e la scagliarono, nel buio, contro gli assalitori. Pochi istanti dopo si erano dileguati, e non fu possibile inseguirli.
Così finisce la prima parte della storia. Il tesoro era scomparso e, poiché non ne fu trovata traccia alcuna, la gente pensò, naturalmente, che i ladri fossero riusciti a portarlo via. Il vecchio Alario fu sepolto, e quando finalmente Angelo fece ritorno, dovette prendere a prestito del denaro per pagare il misero funerale, ed ebbe anche difficoltà a ottenerlo.
Non ebbe certo bisogno che gli dicessero come, avendo perduto l’eredità, fosse anche rimasto senza la sua futura moglie. In questa parte del mondo i matrimoni si concludono esclusivamente sul piano degli affari e, se il denaro promesso non compare il giorno stabilito, la sposa o lo sposo i cui genitori hanno mancato alla promessa sono liberi di andarsene, poiché non ci sarà nessun matrimonio.
Il povero Angelo lo sapeva fin troppo bene. Suo padre non aveva praticamente posseduto poderi e coltivazioni, e ora anche il contante che aveva portato con sé dal Sudafrica era scomparso; gli erano rimasti soltanto i debiti per il materiale da costruzione che era stato impiegato per riattare e allargare la vecchia casa. Era ridotto alla miseria, e la florida e simpatica creatura che avrebbe dovuto esser sua, arricciò il naso davanti a lui come, e peggio, di ogni altro. In quanto a Cristina, passarono molti giorni prima che ci si accorgesse della sua assenza, perché nessuno si ricordava di averla mandata a Scalea a chiamare il dottore che non era mai venuto. Spesso Cristina era solita scomparire per molti giorni di seguito,quando riusciva a trovare qualche lavoretto da fare qua e là nelle lontane fattorie delle colline. Ma quando la sua assenza si prolungò la gente cominciò a chiedersi che cosa mai fosse accaduto, e alla fine decisero che era stata d’accordo con i muratori ed era fuggita con loro.
***
Feci una pausa e vuotai il bicchiere.
“ Una cosa simile non potrebbe accadere in nessun altro luogo” , commentò Holger, caricando di nuovo la sua eterna pipa. “ Mi riempie di meraviglia il fascino naturale che circonda un assassino e una morta improvvisa, in un paese romantico come questo. Azioni che sarebbero semplicemente disgustose e brutali in qua dunque altro paese, qui diventano drammatiche e misteriose, perché questa è l’Italia, e noi viviamo in una torre fatta personalmente costruire da Carlo V per fronteggiare degli autentici pirati barbareschi.”
“ C’ è qualcosa di vero in quanto hai detto”, confermai. Nel suo intimo, Holger è l’uomo più romantico che esista al mondo, ma è sempre convinto di dover spiegare agli altri la ragione di ciò che prova. Penso che abbiano ritrovato il corpo della ragazzina insieme al cofano, qualche tempo dopo” ,aggiunse. “Poiché sembri molto interessato” , dissi, “ti racconterò il resto della storia.”
La luna era ormai alta nel cielo, e il profilo del corpo disteso sul tumulto si era fatto ancora più distinto.
Il villaggio- continuai- riprese assai presto la sua vita insignificante e monotona. Nessuno sentì la mancanza del vecchio Alario , che era rimasto via tanti anni durante la sua permanenza in Sudafrica, al punto di essere stato del tutto dimenticato. Angelo viveva nella casa ricostruita a metà e, poiché non aveva soldi per pagare la vecchia serva, questa non volle restare con lui, anche se qualche volta , sia pure di rado , ritornava a lavargli qualche camicia in nome dell’antico servizio.
Oltre alla casa aveva ereditato un fazzoletto di terra a qualche distanza dal villaggio;cercò di coltivarlo, ma non riuscì a
metterci molto entusiasmo, poiché sapeva che non avrebbe mai potuto pagare le tasse sul terreno e sulla casa, che gli sarebbero certo stati confiscati dal governo, o sequestrati per coprire i debiti del materiale da costruzione, poiché l’uomo che l’ aveva fornito a suo padre rifiutava di accettarlo indietro.
Angelo si sentiva molto infelice. Fino a quando suo padre era stato vivo,e ricco, non c’ era ragazza,al villaggio, che non fosse innamorata di lui; ora, tutto questo era cambiato. Era stato piacevole essere ammirato e corteggiato, e invitato a bere da tutti i padri che avevano ragazze da marito. E adesso era duro sentirsi fissato con freddezza, e a volte deriso, perché qualcuno l’aveva derubato della sua eredità. Cucinava da solo i suoi miseri pasti, e divenne sempre più triste, malinconico e cupo.
Al crepuscolo, quando il lavoro della giornata era compiuto, invece di trattenersi sul sagrato insieme ai giovani della sua età, prese l’abitudine di vagare in luoghi solitari ai margini del villaggio, fino a quando l’oscurità non diventava pressoché totale. Allora rientrava furtivamente in casa e andava a letto per risparmiare la spesa della luce.
Ma in quelle solitarie ore del crepuscolo cominciò a essere vittima di strani sogni a occhi aperti. Non era sempre solo, poiché, spesso, quando si sedeva sul ceppo di un albero, dove lo stretto sentiero girava dentro la gola, gli pareva che una donna si avvicinasse silenziosamente a lui, scivolando a piedi scalzi sulle roccie aguzze, fermandosi sotto una macchia di castagna a una dozzina di metri da dove si trovava, più avanti sul sentiero, chiamandolo con un cenno, senza parlare.
Anche se era immersa nell’ ombra, lui sapeva che le sue labbra erano rosse, e quando si scostavano un po’ egli sorridevano, spuntavano tra esse due piccoli denti acuminati. Seppe subito, anche senza distinguerla chiaramente, che era Cristina, e che era morta. Eppure non aveva paura. Si chiedeva soltanto se non fosse un sogno, perché, pensava, se fosse stato sveglio, avrebbe dovuto provare un grande spavento.
La donna, dunque, aveva le labbra vermiglie, e questo poteva accadere soltanto in sogno. Quando lui si recava all’ imboccatura della gola, dopo il tramonto, lei era già lì che lo aspettava, oppure compariva subito dopo; finì per convincersi che ogni giorno si faceva più vicina. Prima, era stato certo soltanto della sua bocca rosso-sangue, ma ora ogni suo lineamento si faceva più preciso, e quel volto pallido lo fissava con occhi profondi e affamati.
Gli occhi si fecero più cupi. Un po’ alla volta, finì per convincersi che , una sera il sogno non sarebbe finito quando lui si fosse voltato per ritornare a casa, ma lo avrebbe guidato giù nella gola, fino al punto da cui la visione emanava
Ora, quando gli faceva il gesto,era molto più vicina a lui. Le sue guance non erano livide come quelle dei morti, ma pallide per la fame, la furibonda e inappagata fame fisica dei suoi occhi che lo divoravano. Si pascevano, così gli parve, della sua anima, e proiettavano su di lui un incantesimo. Lui non potè dire se il suo alito fosse ardente come il fuoco o freddo come il ghiaccio; non potè dire, neppure, se le sue labbra vermiglie bruciassero le sue, o le congelassero, o se le cinque dita avvinghiate al suo polso gli lasciassero ustioni o mordessero la sua pelle con un gelo atroce. Non potè dire neppure se fosse sveglio o addormentato, vivo o morto; ma seppe che lei lo amava, lei sola tra tutti gli esseri, terreni e ultraterreni, e che esercitava su di lui un incantesimo. Quella notte, quando la luna fu alta nel cielo,l’ombra della creatura non era sola, sul tumulo.
Angelo si svegliò al freddo alitare dell’alba, intriso di rugiada, con la carne, il sangue, e finanche il midollo gelati. Aprì gli occhi alla debole luce grigiastra, e vide le stelle che occhieggiavano sopra di lui. Era molto debole, il suo cuore batteva così lentamente che gli parve di essere sul punto di svenire. Girò la testa sul tumulo come su un cuscino, ma l’altro viso non era lì.
All’ improvviso la paura lo afferrò, una paura inesprimibile e sconosciuta; sbalzò in piedi e fuggì su per la gola, e non si guardò mai alle spalle finchè non raggiunse la porta della sua casa, ai margini del villaggio. Quel giorno si recò a lavoro ancora pieno di spavento, e le ore si trascinarono stancamente finchè il sole non toccò finalmente il mare, sprofondandovi dentro, e le grandi colline aguzze sopra Maratea non diventarono purpuree sullo sfondo grigio del cielo orientale.
Angelo si mise in spalla la pesante zappa e lasciò il campiello. Ora si sentiva meno stanco che al mattino, quando aveva cominciato a lavorare, ma si ripromise ugualmente di recarsi direttamente a casa, senza fermarsi nei pressi della gola, e di mangiare la cena più abbondante che avrebbe potuto imbandire, dormendo poi tutta la notte nel suo letto come un cristiano. Non sarebbe più stato tentato di seguire quello stretto sentiero, da un ombra dalle labbra rosse e l’alito gelato; non sarebbe più sprofondato in quel sogno di terrore e di delizie. Ora si trovava vicino al villaggio; era passata mezz’ora da quando il sole era tramontato, e la campana fessa della chiesa faceva rimbalzare i suoi rauchi rintocchi sulle rocce e le balze scoscese annunciando a tutte le brave genti che la giornata era conclusa. Angelo restò immobile un attimo, la dove il sentiero si biforcava: a sinistra conduceva al villaggio, e a destra giù nella gola, dove una macchia di castagni sovrastava la stretta pista.
La sosta si prolungò per un minuto, Angelo sollevò lo sdrucito berretto dalla fronde e fissò il mare che si spegneva rapidamente, a Ovest; le sue labbra si mossero mentre ripeteva la famigliare preghiera della sera. Le sue labbra si mossero, ma le parole che le seguirono si smarrirono nel suo cervello, trasformandosi in altre e concludendosi con un nome che lui pronunciò ad alta voce…Cristina!
Con quel nome, la tensione della sua volontà sembrò spezzarsi, la realtà svanì e il sogno si impadronì nuovamente di lui e lo trasportò con se, ineluttabile, come un uomo che cammini nel sonno, giù, giù, lungo il rapido sentiero, dell’ oscurità sempre più fitta. E, mentre scivolava accanto a lui, Cristina tornò a bisbigliargli alle orecchie quelle cose dolci e strane le quali, per quale ragione, se fosse stato sveglio, era al sicuro che per lui sarebbero state in buona parte incomprensibili; ma ora, però, erano le parole più meravigliose che avesse mai udito nella sua vita.
E lei lo baciò, ma non sulla bocca. Avvertì i suoi baci avidi sulla sua gola bianca, e seppe che le sue labbra erano rosse. Così quel giorno folle continuò Attraverso il crepuscolo,l’oscurità profonda e il sorgere della luna, e tutta la gloria della notte d’estate. Ma quando giunse l’alba gelida,scoprì di giacere ancora una volta - stremato - sopra il tumulto,eppure stranamente bramoso di donare ancore se stesso a quelle labbra vermiglie.
Poi sopraggiunse la paura,lo spaventoso panico senza nome,il mortale orrore che si erge ai confini del mondo a noi invisibile e inconoscibile,ma di cui acquistiamo coscienza quando il suo brivido agghiacciante ci gela le ossa i fa rizzare i capelli al tocco
della sua mano spettrale. Ancora una volta Angelo saltò giù dal tumulto e fuggì su per la gola, ma questa volta il suo passo era meno sicuro, e il respiro ansante. Quando raggiunse la sorgente d’acqua limpida sgorga a metà pendio, sul fianco della collina, cadde in ginocchio e vi affondò il viso, bevendo avidamente come non eveva mai fatto prima, poiché era la sete di un uomo ferito che era rimasto sanguinante sul campo di battaglia per tutta la notte.
Ora lei l’ aveva in pugno, e Angelo non poteva più sfuggirle: si sarebbe recato da lei ogni sera sull’imbrunire, fino a quando Cristina non gli avesse succhiato anche l’ultima stilla di sangue. Invano, quando il giorno si concluse, cerco di svoltare da un’altra parte, ritornando a casa lungo un sentiero che non sfiorasse l’imboccatura della gola. Invano prometteva a se stesso, ogni mattina all’alba, quando risaliva il solitario cammino dalla riva al villaggio. Tutto invano,poiché quando il sole affondava, abbagliante, nel mare, e il freddo della sera esalava furtivo come da un nascondiglio per dare sollievo al mondo esausto,i suoi piedi puntavano sempre nella stessa direzione, e lei lo aspettava all’ombra del boschetto di castagne; quindi, tutto si ripeteva come prima, Cristina cominciava a baciagli la candida gola già mentre scivolavano giù per il sentiero, avvinghiandosi a lui.
Man mano che il suo sangue veniva meno, lei diveniva sempre più affamata e assetata, e ogni giorno, quando lui si risvegliava alle
prime luci dell’ alba, gli era sempre più difficile alzarsi, arrampicandosi, ansante, lungo il ripido cammino che conduceva al villaggio; e quando andava al lavoro trascinava penosamente i piedi, mentre nelle sue braccia non era rimasto quasi più alcuna forza per maneggiare la pesantissima zappa .
Ora non parlava più con nessuno, ma la gente diceva che stava “consumandosi”d’amore per la ragazza che avrebbe dovuto sposare prima di perdere la sua eredità, e ridevano fragorosamente a questo pensiero, perché la gente di questa terra non era poi molto romantica.
Infine, Antonio, un uomo che vive qui e custodisce la torre, ritornò da una visita ai suoi, che abitano vicino Salerno. Era rimasto via molto tempo, da prima della morte di Alario, e non sapeva cos’era successo. Mi disse che era rientrato di pomeriggio, sul tardi, chiudendosi subito dentro la torre per mangiare e dormire, perché era molto stanco. Si svegliò che era passata la mezzanotte, e guardò fuori:la luna spuntava sulla cresta della collina. Lo sguardo gli cadde sul tumulto, vide qualcosa, e quella notte non riuscì più a dormire. Quando uscì dalla torre, la mattina dopo, era ormai chiaro e non c’era più niente da vedere sul tumulto, a parte qualche sasso e un po’ di sabbia spinta lassù dal villaggio e si precipitò nella casa del vecchio prete. “Ho visto una cosa diabolica questa notte!”. Esclamò. “Ho visto i morti bere il sangue dei vivi…e il sangue è la vita!”
“Descrivimi quello che hai visto”, gli intimò il prete.
Antonio glielo descrisse
“Deve venir laggiù col suo libro e l’acqua santa”, replicò infine. “Verrò quassù prima del tramonto per accompagnarla. Se il Reverendo vuol cenare con me, preparerò ogni cosa.”
“Verrò”, rispose il prete, “Poiché ho letto nei vecchi libri alcune cose di questi strani esseri che non sono né vivi né morti, e giacciono sempre intatti nelle loro tombe, uscendo furtivi all’imbrunire per nutrirsi del sangue e della vita altrui.”
Antonio non sapeva leggere, ma fu lieto di vedere che il prete aveva afferrato la cosa; i libri, pensò, l’avevano certamente istruito sul modo di dare la pace esterna a quella creatura non ancora del tutto defunta.
Così Antonio se ne andò per accudire il suo lavoro, il quale consiste soprattutto nello starsi seduto all’ombra della torre, quando invece non è appollaiato su una roccia, sull’acqua, con in mano una lenza ma senza pescare niente. Quel giorno, però, si recò due volte a contemplare il tumulto alla viva luce del sole, cercò intorno ad esso qualche foro dal quale la creatura potesse entrare o uscire; ma non ne trovò alcuno.
Quando il sole cominciò a calare l’aria, all’ombra, rinfrescò, salì fino al villaggio a prelevare il vecchio prete, portando con sé un cestino di vimini. Dentro il cesto il prete mise una bottiglia di acqua santa, il bacile e l’aspersorio, e la stola di cui avrebbe avuto bisogno. Discesero fino alla torre e aspettarono, accanto al suo ingresso, che le tenebre calassero completamente.
Mentre l’aria era ancora grigia, videro però qualcosa nella penombra: due figure che avanzavano, un uomo e una donna che sembrava aleggiare accanto a lui, tenendogli la testa appoggiata sulla spalla, e così facendo gli baciava la gola. Anche il prete mi ha raccontato tutto questo, confessando che i suoi denti all’improvviso si misero a battere, mentre si avvinghiava al braccio di Antonio.
La visione passò, e scomparve tra le ombre sempre più fitte. Poi Antonio tirò fuori una fischietta di cuoio, piena del liquore assai forte che tiene da parte per le grandi occasioni, e ne incollò una tale sorsata che lo fece sentire di nuovo giovane. Prese quindi la lanterna, il piccone e la vanga, e porse al prete la stola da indossare e l’acqua santa; infine si dissero, fianco a fianco, verso il punto dove il lavoro doveva esser fatto.
Antonio mi ha detto che, nonostante il rum, le ginocchia gli tremavano, e il prete balbettava il suo latino. Quand’ erano ancora a qualche metro dal tumulo, la luce guizzante della lanterna illuminò il volto pallido di Angelo, inconscio come se stesse dormendo, e la sua gola, dalla quale colava un sottile rivolo di sangue fin dentro la camicia; la luce guizzante della lanterna illuminò un altro volto che si era sollevato da quel festino: due occhi infossati e morti, i quali, però, ugualmente vedevano prima, due labbra socchiuse più rosse della stessa vita, due denti luccicanti sui quali scintillava una coccia rosata.
Poi il prete, quel bravo vecchio, chiuse gli occhi e sparse l’ acqua santa davanti a se, e la sua voce balbettante divenne quasi un urlo. Allora Antonio, che dopotutto non è un codardo, sollevò il piccione con una mano e la lanterna con l’ altra e balzò in avanti, senza sapere cosa sarebbe accaduto. Lui giura di aver sentito una voce di donna urlare; un attimo dopo la creatura era scomparsa, e Angelo giaceva senza conoscenza sul tumulo, solo, la striscia rossa alla gola e la fronte gelida imperlata di un sudore mortale.
Lo sollevarono, mezzo morto com’ era, e l’adagiarono sul terreno lì accanto. Poi Antonio si mise al lavoro, e il prete lo aiutò, anche se era vecchio e non poteva far molto; scavarono parecchio in profondità e, alla fine, Antonio si curvò dentro la fossa, protendendo la lanterna, per vedere quanto più era possibile.
I suoi capelli erano castano scuri, appena brizzolati alle tempie; ma in meno di un mese, dopo quella notte, diventò grigio come un tasso. Da giovane aveva fatto il minatore, e la maggior parte di chi lavora nel sottosuolo a dovuto affrontare, almeno una volta nella vita, gli spettacoli orrendi di qualche catastrofe; ma Antonio non aveva mai visto ciò che gli capitò quella notte, un essere né morto né vivo, una creatura che non aveva dimora né sopra, né sotto la terra.
Antonio aveva portato con sé qualcosa che non aveva mostrato al prete. Lo aveva preparato quel pomeriggio: un paletto aguzzo, fatto con un legno duro che aveva trovato sulla spiaggia. Ora, senti dentro la tomba, aveva con sé la lanterna, il pesante piccione e il paletto acuminato. Credo che nessun potere, su questa terra, riuscirebbe mai a convincerlo a descrivere ciò che accada allora, e il vecchio prete era troppo spaventato per guardare.
Dice,il prete, di avere udito Antonio ansimare come una bestia selvaggia, e dibattersi come se stesse lottando contro qualcuno forte quasi quanto lui; e udì anche un rumore diabolico, una seria di tonfi come se qualcosa venisse piantato con violenza attraverso la carne e le ossa; e poi, il suono più orrendo di tutti: il grido di una donna, l’ urlo disumano di una donna, né morta né viva, ma seppellita in profondità da molti giorni. E lui, il povero vecchio prete, poté soltanto barcollare mentre s’ inginocchiava sulla sabbia, gridando le sue preghiere e i suoi esorcismi, per soffocare quelle urla mostruose.
Poi, all’ improvviso, un piccolo cofano di metallo fu scagliato fuori e rotolò accanto alle sue ginocchia e, un istante più tardi, Antonio era al suo fianco, il volto pallido come sego alla luce guizzante della lanterna, intento a riempire freneticamente di sabbia e di sassi la buca, col badile, e a guardare oltre l’orlo, finché lo scavo non fu tutto riempito. Il prete aggiunse che le mani e i vestiti di Antonio grondavano di sangue fresco.
***
Ero giunto alla fine della mia storia. Holger finì il suo vino e si appoggiò allo schienale della sedia. “ Così, Angelo ha riavuto quanto era suo”, commentò. “ Ha sposato quella fanciulla florida e altera alla quale era stato promesso?”
“No. Si era preso una tremenda paura. Ha preferito emigrare nel Sud America e non abbiamo più nulla di lui.”
“ E il corpo di quella povera creatura è ancora lì, suppongo”, disse ancora Holger. “Mi chiedo se sia veramente morta…”
Anch’ io me lo chiedo. Ma, se sia morta o viva, non ho alcun desiderio di scoprirlo, neanche alla luce del giorno. Antonio è grigio come un tasso, e non è più stato lo stesso uomo, da quella notte.